Cina, Cina, Cina. Ormai è un tormentone, ovunque ci voltiamo sentiamo parlare della Cina: la Cina che cresce, la Cina che si prepara alle Olimpiadi, la Cina che vince in tutti i campi. Ma non convince. Nemmeno un po’. Cerchiamo quindi di sollevare per quanto possibile il velo del mistero, leggiamo oltre le statistiche, le percentuali che tanto piacciono agli economisti, vediamo dentro al “miracolo cinese”. Non troveremo niente di bello, ve lo assicuriamo.
Perché dentro a quelle fabbriche, che sfornano giornalmente milioni di magliette, scarpe, automobili e pupazzetti dei pokemon, le leve dell’economia sono azionate dai nuovi schiavi del XXI secolo; una marea informe, che riempie e svuota strade, palazzi, campi paludosi e soprattutto fabbriche, tante fabbriche. Quelle stesse fabbriche e quegli stessi campi visti come un totem alla virtù, all’instancabile forza proletaria e contadina, da quel regime comunista e maoista che per più di mezzo secolo ha sbandierato al mondo l’illusione della sua “rivoluzione culturale” (quella stessa illusione dietro cui s’accalcavano e s’accalcano tutt’ora i “profeti del proletariato” nostrani), quella stessa rivoluzione culturale sotto il cui vessillo venivano sterminati i monaci tibetani, venivano strappati i terreni a chi li aveva curati per secoli, venivano requisiti i beni ai cittadini per permettere agli oligarchi del partito di vivere in dorate roccaforti “popolari”. Quelle stesse fabbriche, quegli stessi campi, sono oggi le basi dell’ascesa mondiale della nuova Cina, dei suoi manager in doppiopetto che parlano inglese e francese, che lavorano al 40esimo piano del grattacielo più alto della città, che hanno 4 cellulari e 2 portatili. Sembrerebbe cambiata, la Cina, sembrerebbe che l’apertura al libero mercato, al capitalismo gli abbia fatto bene, l’abbia fatta crescere, abbia strappato all’oblio della storia il Paese più popoloso del mondo, col suo miliardo e 400 milioni di abitanti. Sembrerebbe. Ma non è così. Perché sotto quella patina dorata, quell’apparenza da El Dorado la cara vecchia Cina comunista rimane la stessa i cui carri armati schiacciavano sotto i cingoli gli studenti ribelli a piazza Tienanmen: un enorme Saturno che mangia i propri figli, e i figli di chi le si oppone. Quelle stesse fabbriche, quegli stessi campi, che erano falsamente esaltati e in realtà mortalmente stritolati dal regime di Mao, sono oggi falsamente esaltati e in realtà mortalmente stritolati dal nuovo-vecchio regime di Pechino, capitalista in economia, comunista nei diritti civili. Il totalitarismo del denaro, dell’utile, della produzione ad ogni costo, fino alla distruzione fisica di chi regge sulle spalle il baraccone: i lavoratori di quelle stesse fabbriche, di quegli stessi campi. Capitalismo e mancanza di diritti civili e sindacali vanno a braccetto nella Cina odierna: giornate lavorative di 16-18 ore, salari minimi, nessuna garanzia contro licenziamenti, infortuni, gravidanze, ecc… Nessuna tutela dell’ambiente, nessuna titubanza dinnanzi a genocidi di specie animali. Nessuna libertà d’espressione, di dissenso, nessuna possibilità di comunicare con l’esterno senza il filtro delle autorità (chi ci prova, magari tramite Internet, viene denunciato dagli stessi motori di ricerca della rete, che a costo di essere esclusi dal grande mercato cinese indicano alle autorità l’ubicazione dei creatori di siti “anti-governativi”,come nel celebre caso del motore Yahoo!). Forte di una tale disparità sui costi di produzione di ogni singolo bene, la Cina si presenta al mondo in modo arrogante, subissando i mercati dell’Occidente con prodotti a prezzo irrisorio, di scarsa qualità, importati clandestinamente saltando così la trafila (e gli aumenti di prezzo) delle catene di distribuzione, venduti illegalmente su banchetti anonimi. La mano del colosso asiatico, tinta del rosso del sangue dei suoi stessi cittadini che muoiono nelle fabbriche, nei campi, nelle prigioni e nelle strade, appare generosa a chi non si fa troppe domande davanti al banchetto del clandestino che vende le stesse scarpe del negozio a un quarto del prezzo: costa meno, tanto basta. Chi se ne frega se si danneggia l’economia nazionale, se si mandano in malora le nostre fabbriche, se le persone che hanno fatto quel prodotto ora sono in galera o magari sono morte di stenti. Abbiamo risparmiato i soldi per una serata in pizzeria, o magari in discoteca. E a niente serve che l’Europa tenti di fermare il fenomeno con norme che tutelino gli interessi nazionali dei propri Stati membri: si viene tacciati di protezionismo da quegli stessi cinesi che poi però non ammettono ingerenze nei loro confronti, che ritengono la violazione dei diritti umani in Tibet “affare loro”, che ritengono giusto decimare un popolo solo perché vorrebbe –che pazzi!- avere un governo che li rappresenti. Che rappresenti la loro fede in qualcosa che non è solo il denaro e la produzione, ma qualcosa che non si può toccare, si può solo sentire, la loro fede nello spirito. Questo la Cina liberal-comunista non lo può tollerare. Ma pretende che siano tollerati i suoi prodotti lordi di sangue nel nome del “libero mercato”. L’unica espressione in Cina in cui la parola “libero” è tollerata.
Mauro Fantera
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